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Si dice "classi ponte" leggasi "classi ghetto"

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“Famiglia Cristiana” n. 43 del 26.10.2008

Per il ministro Gelmini le "classi di inserimento" per bambini immigrati «non sono un problema di

razzismo, ma un problema didattico». Per Alessandra Mussolini, presidente della Commissione

parlamentare per l'infanzia, sono «un provvedimento di stampo razzista».

La Lega cavalca l’onda e va all’arrembaggio dell’immigrato. La "fantasia padana" non ha più limiti,

né pudore. Prima le impronte ai rom, poi il permesso a punti e i 200 euro per il rinnovo, poi

l’impedimento dei ricongiungimenti familiari, e ora una mozione, avanzata a sera tardi in

Parlamento, per le classi differenziali, col pretesto di insegnare l’italiano agli stranieri. Il problema

dell’inserimento degli stranieri a scuola è reale, ma le risposte sono "criptorazziste", non di

integrazione.

Chi pensa a uno "sviluppo separato" in Italia, sappia che quel concetto in altra lingua si chiama

"apartheid", andata in scena in Sudafrica per molti anni: autobus, cinema e scuole separati.

L’onorevole Casini ha parlato di proposta vergognosa: «Di questo passo, andrà a finire che ai

bambini delle classi separate cuciranno sul vestito la lettera "i" come immigrato». E il Secolo

d’Italia, quotidiano di An, nel tentativo di frenare la Lega, ha scritto: "Scordatevi l’apartheid".

La questione dell’italiano è solo una scusa. Tutti sanno che le cosiddette "classi di inserimento"

non sono efficaci. I risultati migliori si ottengono con classi ordinarie e con ore settimanali di

insegnamento della lingua. In Italia questo, in parte, avviene. Lo prevedono le "Linee guida" (2006)

dell’allora ministro Moratti per l’accoglienza degli alunni immigrati, approvate anche dalla Lega.

C’è un progetto che prevede un finanziamento di 5 milioni di euro per insegnare tre diversi livelli di

lingua italiana. Il Governo potrebbe rispolverarlo e far cadere (per amor di patria) la prima

"mozione razziale" approvata dal Parlamento italiano. Oppure, guardare a esperienze come a

Firenze dove un pulmino passa a prendere i bambini stranieri a scuola, li porta ai corsi d’italiano e

poi li riporta in classe.

La mozione, poi, va letta fino in fondo. Prevede che i bambini immigrati, oltre alla lingua

italiana, debbano apprendere il «rispetto di tradizioni territoriali e regionali», della «diversità morale

e della cultura religiosa del Paese accogliente», il «sostegno alla vita democratica» e la

«comprensione dei diritti e dei doveri». Qualcuno sa dire come spiegarlo a un bambino di 5-6 anni,

che deve ancora apprendere l’italiano?

Se l’integrazione è un bene (tutti la vogliono), dev’essere interattiva. E allora, perché non

insegniamo agli alunni italiani il rispetto delle "tradizioni territoriali e regionali" degli immigrati?

Ha detto bene il cardinale Scola: «I buoni educatori devono saper favorire l’integrazione tra le

culture, che è una ricchezza per tutti». Il rischio, altrimenti, è una società spaccata in due, di cui una

con meno diritti dell’altra.

Alle difficoltà reali si risponde con proposte adeguate, come s’è fatto col maestro di sostegno. In

Italia non abbiamo più classi speciali per portatori di handicap, ci sono scuole dove sordi e muti

stanno insieme a chi parla e sente. La mozione approvata dal Parlamento fa scivolare

pericolosamente la scuola verso la segregazione e la discriminazione. Si dice "classi ponte", ma si

legge "classi ghetto".

Negli anni Sessanta, quando bambini napoletani, calabresi o siciliani andavano a scuola a Novara,

nessuno s’è sognato di metterli in una "classe differenziale" perché imparassero italiano, usi e

tradizioni del Nord, né di far loro dei test d’ingresso. Perché ora ci pensa il novarese Cota