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Così l'occidente produce la fame nel mondo

di Luciano Gallino

“la Repubblica” del 10 maggio 2008

Tempo fa l'allora presidente della Banca Mondiale, James Wolfensohn, ebbe a dire che quando la

metà del mondo guarda in tv l'altra metà che muore di fame, la civiltà è giunta alla fine. Ai nostri

giorni la crisi alimentare che attanaglia decine di Paesi potrebbe far salire il totale delle persone che

muoiono di fame a oltre un miliardo. La battuta citata è così diventata ancor più realistica. Con una

precisazione: la nostra metà del mondo non si limita a guardare quel che succede. Si adopera per

produrre materialmente lo scenario reale che poi la tv le presenta.

Sebbene varie cause contingenti – i mutamenti climatici, la speculazione, cinesi e indiani che

mangiano più carne, i milioni di ettari destinati non all'alimentazione bensì agli agrocarburanti, ecc.

– l'abbiano in qualche misura aggravata, la fame nel mondo di oggi non è affatto un ciclo recessivo

del circuito produzione alimentare-mercati-consumo. Si può anzi dire che per oltre due decenni sia

stata precisamente la fame a venir prodotta con criteri industriali dalle politiche americane ed

europee. L'intervento decisivo, energicamente avviato sin dagli anni 80, è consistito nel distruggere

nei Paesi emergenti i sistemi agricoli regionali. Ricchi di biodiversità, partecipi degli ecosistemi

locali, facilmente adattabili alle variazioni del clima, i sistemi agricoli regionali avrebbero potuto

nutrire meglio, sul posto, un numero molto più elevato di persone. Si sarebbe dovuto svilupparli con

interventi mirati ad aumentare la produttività delle coltivazioni locali con una scelta di tecnologie

meccaniche ed organiche appropriate alle loro secolari caratteristiche. Invece i sistemi agricoli

regionali sono stati cancellati in modo sistematico dalla faccia della terra.

Dall'India all'America Latina, dall'Africa all'Indonesia e alle Filippine, milioni di ettari sono stati

trasferiti in pochi anni dalle colture intensive tradizionali, praticate da piccole aziende contadine, a

colture estensive gestite dalle grandi corporation delle granaglie. La produttività per ettaro è

aumentata di decine di volte, ma in larga misura i suoi benefici sono andati alle megacorporation

del settore, le varie Monsanto (oltre un miliardo di dollari di profitti nel 2007), Cargill (idem),

General Mills, Archer Daniel Midland, Syngenta, l'unica non americana del gruppo. Da parte loro i

contadini, espulsi dai campi, vanno a gonfiare gli sterminati slum urbani del pianeta. Oppure si

uccidono perché non riescono più a pagare i debiti in cui sono incorsi nel disperato tentativo di

competere sul mercato con i prezzi imposti – alle sementi, ai fertilizzanti, alle macchine – dalle

corporation dell'agro-business. Nella sola India, tra il 1995 e il 2006, vi sono stati almeno

duecentomila suicidi di piccoli coltivatori.

È noto che il braccio operativo dello smantellamento dei sistemi agricoli regionali sono stati la

Banca Mondiale, con i suoi finanziamenti per qualsiasi opera – diga, autostrada, oleodotto, zona

economica speciale, ecc. – servisse a tale scopo; il Fondo monetario internazionale, con

l'imposizione degli aggiustamenti strutturali dei bilanci pubblici (leggasi privatizzazione forzata di

terra, acqua, aziende di servizio) quale condizione di onerosi prestiti; l'Organizzazione mondiale per

il commercio. Non ultima, soprattutto per quanto riguarda l'Africa, viene la Commissione Europea,

la cui Politica agricola comune ha contribuito a spezzare le reni a milioni di contadini africani

facendo in modo, a suon di sussidi e jugulatori contratti bilaterali, che i prodotti della Baviera o del

Poitou costino meno, in molte zone dell'Africa, dei prodotti locali. Il tutto con la fervida adesione

dei governi nazionali, che preferiscono avere buoni rapporti con le multinazionali che non

provvedere al sostentamento delle popolazioni rurali.

Braccio ideologico della stessa operazione sono stati le migliaia di economisti che in parte operano

alle dipendenze di tali organizzazioni, in parte costruiscono per uso e legittimazione delle

medesime, nelle università e nelle business school, infinite variazioni sul principio del vantaggio

comparato. In origine (1817!) tale principio sosteneva una cosa di paterno buon senso: se gli inglesi

son più bravi a tessere lane che non a fabbricare porto, e i portoghesi fan meglio il porto che non i

tessuti di lana, converrà ad ambedue acquistare dall'altro Paese il prodotto che quello fa meglio. Ma

l'onesto agente di cambio David Ricardo sarebbe sbalordito al vedere che esso, reincarnato in

complessi modelli econometrici digitalizzati, viene impiegato oggi nel tentativo di dimostrare che al

contadino senegalese, o indiano, o filippino, conviene coltivare un'unica specie di vegetale per il

mercato mondiale, piuttosto che coltivare le dozzine di specie di granaglie e frutti che

soddisferebbero i bisogni della comunità locale.

Una volta sostituito a migliaia di sistemi agricoli regionali in varia misura autosufficienti un

megasistema agrario globale che si dava per certo esser capace di autoregolarsi, il resto è seguito

per vie naturali. Le grandi società dell'agrindustria accaparrano e dosano i flussi delle principali

derrate in modo da tenerne alti i prezzi. Fondi pensione e fondi comuni investono massicciamente in

titoli derivati del settore alimentare, praticando e incentivando la speculazione al rialzo. Cosa che

non avrebbero motivo di fare se la maggior parte delle aziende agricole del mondo fossero ancora di

piccole o medie dimensioni. Da parte loro, illusi dall'idea d'un mercato globale delle derrate

autoregolantesi, i governi dei Paesi sviluppati hanno lasciato cadere a livelli drammaticamente bassi

la quantità delle scorte strategiche: meno di 10-12 settimane per il grano, in luogo di almeno 24.

Il prezzo del sistema agricolo globale lo pagano i poveri. Compresi quelli che si preoccupano

perché anche il prezzo delle tortine di argilla, la terra che mangiano per placare i morsi della fame

quando il mais o il riso sono diventati inaccessibili, è aumentato troppo: succede ad Haiti. La crisi

alimentare in atto non è infatti dovuta alla scarsità di cibo; esso non è mai stato, nel mondo,

altrettanto abbondante. È un problema di accesso al cibo, in altre parole di povertà, di cui il sistema

agricolo globale ha immensamente elevato la soglia.

Se un gruppo di tecnici avesse costruito un qualsiasi manufatto meccanico o elettronico tanto rozzo,

perverso nei suoi effetti, costoso e vulnerabile quanto il sistema agricolo globale costruito da Usa e

Ue negli ultimi vent'anni, verrebbe licenziato su due piedi. I funzionari delle organizzazioni

internazionali che l'hanno costruito, gli economisti che hanno fornito i disegni di base, e i politici

che ne hanno posto le basi con leggi e trattati, non corrono ovviamente alcun rischio del genere.

Al singolo individuo di questa parte del mondo resta da decidere che fare. Può spegnere la tv, per

non doversi sorbire ancora una volta, giusto all'ora di pranzo, il tedioso spettacolo di bimbi

scheletrici che frugano nell'immondizia. Oppure può decidere di investire una quota dei suoi

risparmi in azioni dell'agrindustria, come consigliano sul web dozzine di società di consulenza

finanziaria. Un investimento promettente, assicurano, perché i prezzi degli alimentari continueranno

a crescere per lungo tempo. Infine può scrivere al proprio deputato in Parlamento chiedendogli di

adoperarsi per far costruire attorno alla penisola, Alpi comprese, un muro alto dodici metri per tener

fuori gli affamati. Se qualcuno conosce altre soluzioni che la politica, al momento, sia capace di

offrire, per favore lo faccia sapere.