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MATTATOIO GAZA
I PERCHÉ DI UNA GUERRA PIANIFICATA DA SEI MESI

di Jamil Hilal *

il manifesto del 16.1.2009

Obiettivo di Israele nell'attacco a oltranza ad Hamas: riaffermare l'egemonia militare nell'area. Piombo fuso è un avvertimento a Hezbollah, Siria e Iran. Ma l'immagine di uno stato assetato di sangue è una sconfitta politica
«Ribadisco che tratteremo la popolazione (di Gaza) con un guanto di velluto». (Il premier israeliano Ehud Olmert)
Israele ha cominciato i bombardamenti aerei su Gaza la mattina del 27 dicembre, e l'attacco di terra con i tank e la fanteria ha avuto inizio il 3 gennaio. Al 9 gennaio circa 776 palestinesi (per metà donne e bambini) erano stati massacrati (alcuni corpi si ritiene siano sotto le macerie degli edifici distrutti), e circa 3150 persone ferite. Ospedali, scuole, case e università sono state bersagliate, è stata tagliata l'elettricità, l'assedio di Gaza è stato inasprito all'estremo, e l'infrastruttura di Gaza ha subito un danno incalcolabile. Facendo le debite proporzioni, queste cifre equivarrebbero a 31mila italiani (o britannici) uccisi e più di 124mila feriti in meno di undici giorni. Il danno patrimoniale ammonta a miliardi di dollari. Nella minuscola lingua di terra chiamata Gaza, un milione e mezzo di palestinesi (di cui la metà ha meno di 15 anni) è stipato in un'area che non misura più di 362 chilometri quadrati. Questo ne fa la il luogo più densamente popolato del pianeta. Oltre tre quarti della popolazione sono profughi di prima, seconda e terza generazione provenienti da aree su cui Israele ha assunto il controllo nel 1948. La metà dei profughi vive in otto campi profughi che dipendono tuttora dagli aiuti umanitari. Lo spossessamento, l'occupazione prolungata, l'assedio hanno fatto della Striscia di Gaza uno dei posti più sventurati della terra.
La ben orchestrata macchina propagandistica ufficiale israeliana, che come al solito recita il ruolo della vittima, ha parlato a un Occidente (Usa e Europa) ricettivo delle «estreme sofferenze» patite dagli israeliani: loro, che hanno le armi nucleari, si sentono minacciati dai razzi di Hamas. La propaganda però non spiega perché questi razzi vengono lanciati. Prima che Gaza fosse trasformata dagli israeliani in un mattatoio, nei sei mesi precedenti era stato ucciso un israeliano. E da quando il guanto di velluto dell'esercito ha trasformato Gaza in un grande campo di prigionia, altri tre israeliani (tra i quali un palestinese con cittadinanza israeliana) sono stati uccisi dai razzi. Va ricordato che imporre un assedio e un blocco a una popolazione civile è un atto di guerra, che mira a sottomettere la volontà degli assediati. Il fatto che Gaza è sotto occupazione diretta e indiretta sin dal 1967 non viene detto dai media ufficiali israeliani né dalla gran parte dei media occidentali.

Un enorme campo di prigionia
La macchina propagandistica israeliana evita anche di spiegare perché tutte le fazioni politiche palestinesi (e non solo Hamas) il 19 dicembre 2008 non hanno riconfermato la tregua di sei mesi (iniziata il 18 giugno 2008). La semplice verità è che la tregua era stata rispettata da parte palestinese, ma non dall'esercito israeliano, che ha continuato i suoi omicidi di militanti palestinesi e il suo assedio di Gaza. La tregua non era stata estesa fino a coprire la Cisgiordania, dove gli insediamenti coloniali hanno continuato a espandersi, e Israele ha continuato l'incarcerazione di militanti palestinesi, che ora ammontano a più di 10mila (l'equivalente di 250mila italiani in carcere per ragioni politiche). Tra quelli che sono ancora nelle prigioni israeliane vi sono circa 40 membri eletti del Consiglio legislativo palestinese.
Ora sappiamo dai giornali israeliani che l'operazione Piombo fuso è stata pianificata sotto la supervisione del ministro della difesa Barak nel giugno 2008, cioè sei mesi prima della guerra a Gaza (27 dicembre 2008). In altre parole, la guerra israeliana contro Gaza non è stata una reazione alla violazione della tregua da parte dei palestinesi. Le motivazioni erano altre.
Il ritiro unilaterale da Gaza di Sharon nel 2005 avrebbe dovuto mettere fine all'occupazione militare di Israele su quella lingua di terra palestinese. Ma la mossa, molto pubblicizzata, non era niente più che una mistificazione, perché Israele ha continuato a mantenere il pieno controllo sui varchi, sullo spazio aereo, sulle acque extraterritoriali, sull'economia, sull'elettricità e su molte altre cose. Terminata l'occupazione diretta, Gaza è stata trasformata in un enorme campo di prigionia. Israele possedeva la chiave dei suoi pochi ingressi, e ha continuato con le incursioni militari e gli omicidi a suo piacimento. In breve, Gaza è stata soggetta a un sistema di punizione collettiva. Ma questo è in linea con la politica - perseguita da tempo da Israele - di criminalizzare i palestinesi etichettandoli come «terroristi» inidonei a gestire uno stato, come incivili, ecc.
Dopo la vittoria elettorale di Hamas nel 2006, per la macchina propagandistica di Israele è stato facile promuovere in Europa e negli Usa la sua politica di punizione collettiva con la scusa di «combattere il terrorismo». Così, nel settembre 2007, Israele ha dichiarato Gaza «territorio ostile». Vale la pena ricordare che nel marzo 2002 Israele inviò i suoi tank, i suoi F16 e gli elicotteri Apache in Cisgiordania per distruggere i posti di polizia, le sedi dell'Autorità palestinese (compreso il quartier generale di Arafat, che fu messo agli arresti domiciliari) e le infrastrutture, sempre con il pretesto di combattere il «terrorismo». Perché quasi sempre qualunque violenza esercitata dai deboli è etichettata «terrorismo» mentre la violenza esercitata dalle grandi potenze (tra cui gli Usa e Israele) è definita «anti-terrorismo».

Sulla pelle dei civili
È facile dire - come hanno fatto Livni, Barak e Olmert (la troika dell'attuale governo israeliano) - che Israele sta bombardando i civili palestinesi perché i militanti di Hamas sono nei luoghi dei civili. Loro si trovano lì perché, come gli altri combattenti palestinesi, non sono un esercito con caserme, campi militari o istituzioni. Loro vivono e lavorano tra le persone comuni e sentono fortemente di combattere per la causa della libertà e per rovesciare le condizioni intollerabili loro imposte da una potenza occupante. Qui vale la pena osservare che, nonostante le forti divisioni politiche esistenti nel movimento politico palestinese, tra coloro che combattono l'esercito invasore israeliano (con armi semplici e limitate) vi sono palestinesi appartenenti a tutte le fazioni politiche (comprese tra le altre Fatah, il Fronte popolare, la Jihad islamica, il Fronte democratico), anche se Hamas resta il maggior partito di resistenza.
Il professore ebreo-americano Richard Falk, rapporteur speciale dell'Onu per i diritti umani nei Territori palestinesi occupati, ha ragione ad affermare che «gli attacchi aerei israeliani sulla Striscia di Gaza costituiscono gravi violazioni del diritto umanitario internazionale così come definito nelle Convenzioni di Ginevra, in relazione sia agli obblighi di una Potenza occupante, sia a quanto previsto dalle leggi di guerra». Ha anche ragione a definire «genocida» il persistere di Israele nella sua attuale politica. Secondo Falk questa «rischia di distruggere una intera comunità palestinese che è parte integrante di una unità etnica più ampia». Falk va oltre mettendo in guardia su «un olocausto palestinese» in corso e sul bisogno di «ricordare al mondo il famoso impegno "mai più" che seguì il nazismo» (vedi http://www.transnational.org/Area_MiddleEast/2007/Falk_PalestineGenocide.html).
La mastodontica macchina militare israeliana può soggiogare militarmente Gaza. Ma questo non significa vincere la guerra. Per quanto grande la sua potenza militare, Israele non può eliminare la determinazione palestinese a combattere l'occupazione e a difendere la causa della libertà e dell'autodeterminazione. Più Israele usa la sua cieca forza militare, più la bilancia morale del potere penderà a suo sfavore, e a favore della causa palestinese della libertà. Qui sta il dilemma di Israele, degli Usa e dei loro alleati arabi «moderati». La guerra di Israele contro Gaza ha radicalizzato il pubblico arabo, così come era successo dopo la guerra contro il Libano e Hezbollah nell'estate del 2006. Questo è il motivo per cui, a mio parere, i principali perdenti, a parte Israele, in questo scontro asimmetrico sono prima di tutto il «moderato» Mahmud Abbas e i regimi arabi «moderati». Essi hanno scommesso sui negoziati, e sulla volontà dell'occupante e dell'amministrazione Bush di arrivare a uno stato palestinese indipendente entro la fine del 2008 (come prometteva l'accordo di Annapolis). Abbas è stato ricompensato con una nuova carneficina a Gaza.
Il campo arabo «moderato» che è alleato con gli Stati uniti (capitanato dall'Egitto e dall'Arabia saudita) uscirà perdente dallo scontro in atto. Ha impedito che si tenesse un summit arabo per paura che vi fossero pressioni ad aiutare i palestinesi, e che si assumessero iniziative volte a costringere Israele e gli Usa a fermare la carneficina dei civili a Gaza senza condizioni. È rimasto a guardare, proprio come accadde quando Sharon stringeva d'assedio Arafat e distruggeva l'infrastruttura della sua Autorità palestinese.
Il campo radicale (guidato da Iran e Siria), insieme alla Turchia che ha assunto una posizione netta contro la guerra di Israele, probabilmente ne otterrà maggiore influenza sulla regione. Uno dei principali obiettivi della «guerra a oltranza» contro Hamas per Israele era riaffermare la propria supremazia militare su tutti i suoi paesi vicini. La guerra perciò vuole essere un avvertimento a Hezbollah in Libano, nonché alla Siria e all'Iran: Israele ha imparato le lezioni della guerra contro il Libano nel 2006 e, se sfidato, può mettere in campo una punizione devastante come quella inflitta a Gaza. Ma la sconfitta politica di Israele nella guerra e la sua immagine offuscata, quella di uno stato assetato di sangue, ha sortito l'effetto opposto.
L'Europa, vista da Gaza, è apparsa divisa, impotente, e senza nerbo morale. Non ha mostrato il benché minimo attaccamento ai valori dell'illuminismo (il rispetto per la vita umana, la libertà, il diritto di un popolo di resistere all'oppressione). Gli Usa, attraverso le loro azioni in Iraq (e non solo) e il loro sostegno indiscusso a Israele, hanno già fatto propri i due pesi e due misure, l'aggressione, la bancarotta morale.
Barak, il ministro della difesa israeliano, non riuscirà a «cambiare le regole del gioco» come si riproponeva di fare attraverso la guerra a Gaza, così come Israele non ha raggiunto i propri scopi nella guerra al Libano del 2006, e così come Condoleezza Rice non è riuscita a creare un «nuovo Medioriente». La troika che governa Israele non potrà sradicare l'idea della resistenza a Israele, né distruggere Hamas, né far sparire Gaza in fondo al mare come auspicava una volta Rabin (il primo ministro israeliano assassinato). Israele alla fine dovrà arrendersi alla richiesta di Hamas e dei palestinesi di cessare il fuoco e porre fine all'assedio.
Se otterrà la fine dell'assedio, Hamas si presenterà come vincitore mantenendo intatto il proprio potere. Israele preferirebbe far concludere l'assedio con l'apertura del valico di Rafah: in questo modo la responsabilità di Gaza ricadrebbe sull'Egitto. Un tale esito permetterebbe al governo israeliano, in cui Tzipi Livni e Ehud Barak sperano entrambi di restare dopo le elezioni di febbraio, di presentarsi come vincitore. Tuttavia l'Egitto non accetterà una soluzione simile, per ragioni interne ed anche per altre.

L'ultima parola
Israele va alle urne il 10 febbraio, e potrebbe dipendere dall'esito della guerra a Gaza se Barak, che di questa guerra è l'artefice, potrà ottenere per il suo Partito laburista il sostegno del partito Kadima di Tzipi Livni e dell'estrema destra del Likud di Binyamin Netanyahu. Il risultato comunque non è di grande significato per i palestinesi, perché tutti i leader politici israeliani hanno dato la loro approvazione alla guerra, quale che fosse il loro partito di appartenenza. Nessuno si è interessato alle condizioni necessarie per una pace genuina con i palestinesi e con il mondo arabo.
A prescindere dall'accordo finale, una cosa appare certa: tra i palestinesi si radicherà ancora di più la volontà di resistere all'occupazione e alla dominazione israeliana e di far fallire qualunque tentativo di imprigionare i palestinesi in ghetti e bantustan, sotto la minaccia di morire di fame. Hamas senza dubbio farà il possibile per capitalizzare la simpatia riservatagli dal mondo arabo e islamico - una simpatia che non ha precedenti - e la condanna delle atrocità commesse da Israele sui civili. La sua leadership ha già messo in chiaro - non importa chi sta cercando di fare cosa in campo diplomatico -che «l'ultima parola andrà al movimento di resistenza» e non alla «cosiddetta leadership legittima» di Ramallah. Hamas si è già affermato come la principale forza palestinese nella lotta contro Israele, ruolo ricoperto fino al 2006 da Fatah.
Oggi sta emergendo un nuovo campo politico palestinese che punta alla possibilità di un movimento che unifichi tutte le fazioni palestinesi sotto una nuova strategia, con una visione politica per il popolo palestinese che non si limita alla soluzione con due stati, né a tenere in vita un'Autorità palestinese azzoppata.
La risoluzione del Consiglio di sicurezza approvata il 9 gennaio di prima mattina (con l'astensione degli Usa) sulla situazione a Gaza, in cui si chiede tra l'altro il cessate il fuoco, non modifica significativamente la situazione sul terreno. Né Israele né Hamas si sono mostrati intenzionati a rispettarla, e la risoluzione era priva di qualsiasi meccanismo attuativo, lasciando così Israele libero di continuare la guerra finché non riterrà di aver raggiunto i suoi obiettivi.
(Traduzione Marina Impallomeni)

* Jamil Hilal è un sociologo palestinese che vive a Ramallah, autore di numerose pubblicazioni sulla società e sulla politica palestinesi. Fra i suoi libri, in arabo, “La strategia economica di Israele in Medio Oriente” (1995); “Il sistema politico palestinese dopo Oslo: uno studio analitico e critico” (1998); “La società palestinese e le problematiche della democrazia” (1999). In italiano, Bollati Boringhieri ha pubblicato “Parlare con il nemico. Narrazioni palestinesi e israeliane a confronto», a cura di Maria Nadotti, un saggio che Hilal ha scritto con Ilan Pappe, e che mette a confronto cinque studiosi israeliani e cinque studiosi palestinesi “nello sforzo di riscrivere dal basso la storia della Palestina fuori dagli schemi nazionalistici di entrambe le parti”. Nel 2007, per Jaca Book è comparsa la raccolta di saggi “Palestina quale futuro? La fine della soluzione dei due Stati”, a cura di Jamil Hilal, un libro che inquadra l’attuale situazione del conflitto palestinese-israeliano nella più ampia prospettiva della scena mediorientale ed internazionale