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«La paura è merce politica, più si alimenta e più cresce il bisogno di

autorità»

intervista a Nadia Urbinati, a cura di Bruno Gravagnuolo

in “l'Unità” del 16 febbraio 2009

C’è una differenza di fondo tra il Partito democratico Usa e il Pd italiano. Oggi quello americano è

una formidabile macchina organizzativa di elettori, senza smagliature ideologiche e con una cultura

laica e libertaria di fondo. In più l’avversione ai repubblicani è radicale. Nel Pd italiano invece

convivono posizioni opposte sui diritti civili e sul dialogo politico, che possono farlo implodere».

Conversazione ad ampio raggio quella con Nadia Urbinati, cattedra di «Political Theory» alla

Columbia University di New York, studiosa di Hannah Arendt e dell’Individualismo democratico

(ultimo suo libro per Donzelli). Tesi politica di Urbinati: il Pd deve coagularsi nella società civile,

darsi un riconoscibile linguaggio di sinistra, fondato sul nesso «diritti/emancipazione». Altrimenti?

Altrimenti in Italia passerà l’ondata emotiva di destra, che sta sgretolando i fortilizi storici della

sinistra. E in virtù di una manipolazione «esistenziale e decisionista», che drammatizza i problemi

«per risolverli in chiave autoritaria e potestativa».

Ad esempio, spiega Urbinati, l’attacco alle donne su due fronti: quello quasi quotidiano degli stupri

e quello operato dal presidente del Consiglio che parla delle donne nello stesso modo in cui parla

degli immigrati. La retorica della politica della sicurezza è come un double bind, dice: «da un lato si

mandano i militari nelle strade violando la Costituzione, perché non esiste veramente uno stato di

emergenza; dall’altro si fomenta il clima di paura non solo perché la paura genera violenza ma

anche perché si giustifica l’impossibilità di garantire la sicurezza usando l’argomento

dell’ineluttabilità della natura umana. Ci viene detto cioè che l’uomo è cacciatore e violento per sua

natura, come se questo fosse una fatalità. E lo stupro è il riconoscimento della bellezza femminile.

Politica e linguaggio che sono una vergogna, una iattura per l’Italia». E non è l’unica vergogna.

Professoressa Urbinati, per «The Economist» quello di Eluana è stato un dramma nazionale

che ha rivelato la stabile influenza della Chiesa e l’insofferenza del Premier verso le regole del

diritto. È stato questo il «film»?

«The Economist ha capito tutto, concordo totalmente. La situazione è grottesca. Sappiamo

benissimo che cos’è lo stato di diritto e ciò che avviene risponde a una logica precisa e a due facce.

Da un lato questo pontificato recupera un ruolo teocratico di fondo, insofferente per il rispetto delle

sfere autonome di vita, per le scelte del singolo. Dall’altra parte l’esecutivo prevarica la divisione

dei poteri in chiave decisionista».

Eppure all’inizio la maggioranza degli italiani era favorevole alla battaglia di Beppino

Englaro...

«Sì, ma l’esecutivo rimescola e cavalca l’onda delle emozioni. E il paradosso è che questa

maggioranza politica, dai larghi numeri, invece di unire gli italiani, stimola continue divisioni e

lacera le coscienze. È un approccio esistenziale ultimativo. Privo di mediazioni politiche. Come del

resto accade sul piano della sicurezza, giocata sul filo della paura. Il risultato non può che essere

l’appello all’autorità salvifica, come l’unica in grado di dirimere conflitti insolubili in modo

imperativo».

È una destra che vuole imporre al paese una sorta di bipolarismo etico? Una destra da stato

etico?

«Attenti a non nobilitarla troppo con queste definizioni. Non è nemmeno da stato etico. La verità

per ora è più semplice. Berlusconi vuol fare con lo stato quello che ha fatto da imprenditore con le

sue aziende. La sua è una scommessa megalomane e narcisistica, per radicare il proprio potere

personale e dispotico nelle istituzioni. Forse è la Chiesa cattolica a coltivare l’ambizione di una

politica etica, usando l’occasione fornitale da Berlusconi».

Il tutto in un quadro di lacerazioni molteplici, segnato da intolleranze e violenze di branco sul

territorio. Da pendolare tra Usa e Italia, che percezione antropologica ha del paese?

«Prima di arrivarci, vorrei tornare alle politiche della sicurezza, il che è già un inizio di risposta.

Anche qui c’è come un approccio imprenditoriale. Lo stato incrementa l’ansia di sicurezza, per

giustificare mezzi speciali, magari simbolici, come l’uso dell’esercito in strada. E per stimolare la

richiesta di autorità. Un circolo vizioso. Quanto al paese reale, mi sembra in preda a una doppia

sindrome. Dove convivono fatalismo e angoscia. Per un verso c’è un senso di impotenza e

rassegnazione. E al contempo, un vissuto incattivito e da ultima spiaggia. Il paese talvolta pare

peggiore di Maroni... Vive con diffidenza e preoccupazione gli stranieri, li teme, benché l’Italia sia

un paese di migranti e genti mescolate. E alla fine convive assuefatta con le sue litigiosità e le sue

emergenze. Spesso accollandole ai diversi».

In questo clima però si è cristallizato un blocco emotivo e sociale conservatore che può

scalzare del tutto la sinistra dalla società civile. È un rischio reale?

«Altroché! E questo per me è un dramma dai tempi lunghi, almeno partire dal 1994. Occorrerebbe

fare la storia della sinistra dal 1989 per capire come quel blocco si è formato, e perché non lo si è

contrastato con efficacia. La sinistra nel suo insieme - parlamentare e no - ha perso il suo linguaggio

specifico, e ha mancato sul piano della leadership. In un sistema rappresentativo questo è un punto

essenziale. Senza leader rappresentativi nei quali identificarsi sul piano emotivo e ideale, c’è il

vuoto».

La crisi di leadership non nasce anche dall’aver abbandonato interessi, radicamento e

memorie condivise legate all’emancipazione dei subalterni?

«Certo, è innegabile. Almeno da quando la sinistra ha smesso di coniugare governo ed

emancipazione sociale. Dopo aver aperto al privatismo nella scuola e al precariato, da Prodi a

D’Alema! Sul piano ideale chiusi i libri marxisti, non se ne sono aperti degli altri, e non c’è più

stata una seria riflessione teorica. Per liberalismo si è inteso un semplice mercato regolato, e la

meritocrazia ha avuto la meglio sull’eguaglianza delle opportunità. Quanto alla “cittadinanza”, la si

è declinata in versione legalistica e astratta, senza politiche e progetti sociali. Laddove al contrario,

essa è strumento di emancipazione universale, nonché potere democratico di controllo, oltre che

terreno inclusivo dell’ospitalità»

Mentre il Pd non sa dove sedersi a Strasburgo, l’americano «Newsweek» titola in copertina:

«siamo tutti socialisti». Che c’è di vero?

«È il grande dibattito Usa del momento. Al centro ci sono il ruolo dello stato in economia, i piani di

salvataggio per imporre regole alle banche. E gli indirizzi produttivi. Socialismo equivale a

spauracchio, ma allude a una necessità di governo economico. Non si può rinunciare a un ruolo

forte del pubblico per rilanciare il meccanismo economico. Ecco la verità che si è fatta strada».

Qual è il nocciolo sociale del consenso trainante di Obama, nel mondo produttivo e dei lavori?

«Elettorato ampio, fatto di “professionals” - lavoratori delle professioni libere - sottoclassi,

emarginati e precari. E lavoratori dell’industria, comunemente reputati in diminuzione e nondimeno

oggetto dell’attenzione di Obama, deciso ad aiutare l’industria automobilistica. La sensazione è

quella di una situazione gravissima, dove il mercato si è inceppato e si rivelato incapace di

funzionare. Ecco perché lo stato deve intervenire. E l’augurio è che intervenga non solo per far

ripartire l’economia, ma per distribuire opportunità e ricchezza. Come ha promesso Obama».