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Chiesa e mafia

 

di Tonio Dell'Olio

 

in Rocca” del 15 aprile 2014

 

Qual è la novità di un Papa che entra in una chiesa di Roma tra due ali plaudenti di folla un venerdì sera? È visione consueta, frequente dalle parti di San Pietro. Ciò che non è affatto frequente è che l'iniziativa sia organizzata da una vasta rete antimafia, per giunta aconfessionale pur se fondata e presieduta da don Luigi Ciotti, un prete di strada. Non è scontata quella scena se si pensa che quelle ali di gente sono composte da persone cui la mafia ha fatto pagare il prezzo più alto recidendo in un solo momento un affetto prezioso. Sono i familiari delle vittime innocenti di mafia. In quella chiesa di Roma si cerca di rimarginare una ferita. Non tanto quella del dolore insanabile della perdita in modo tragico di un padre, una madre, un figlio, ma anche la ferita provocata da atteggiamenti ambigui che talvolta proprio la chiesa e i suoi pastori hanno avuto nei confronti delle mafie e dei loro esponenti.

C'è letteratura abbondante sui rapporti tra Chiesa e mafia. Ultimi soltanto per data ricordo i testi di Nicola Gratteri e Antonio Nicaso, «Acqua santissima - La Chiesa e la `ndrangheta: storie di potere, silenzi e assoluzioni» (Mondadori) e quello di Annachiara Valle, Santa malavita organizzata - Per smetterla con gli uomini d'onore, tutti casa, `ndrangheta e chiesa. Ma prima di queste pubblicazioni non possiamo non citare Isaia Sales, I preti e i mafiosi - Storia dei rapporti tra mafie e Chiesa cattolica (Dalai Editore), i due volumi di Augusto Cavadi, Il vangelo e la lupara - Materiali su chiese e mafia (Dehoniane). Testi che, con puntualità e documentazione non hanno mancato di mettere in evidenza anche le criticità, certe contiguità e le ambiguità di un rapporto che storicamente si è rivelato a volte torbido e difficile. Storicamente non possiamo non ricordare la lettera eloquente datata 1963 con cui il cardinale Ruffini, allora arcivescovo di Palermo, rispondeva alla sollecitazione del Card. Dell'Acqua, segretario' di Stato della Santa Sede, che gli chiedeva di prendere posizione all'indomani della strage di Ciaculli in cui erano rimasti uccisi quattro carabinieri. L'arcivescovo di Palermo non riteneva opportuno spendere la propria parola autorevole

di condanna della «cosiddetta mafia» che appariva come un'invenzione della cultura socialcomunista per gettare discredito sulla gente sana e laboriosa della Sicilia. Frequenti i casi in cui gli esponenti di spicco delle famiglie malavitose si legittimano con pubbliche apparizioni nel corso delle feste religiose, con i posti riservati nelle chiese, con offerte cospicue in favore delle

parrocchie e persino sono indicati quali modelli della beneficenza dagli stessi pastori. Non sono mancati i casi eclatanti come quelli di padre Mario Frittitta, il carmelitano che garantiva la celebrazione della santa messa a Pietro Aglieri, capomandamento a Palermo, nel suo stesso luogo di latitanza. Oppure il caso di Mons. Pietro Vergati rettore della chiesa di Sant'Apollinare a Roma, che si fece a suo tempo autorizzare il permesso per la sepoltura di Enrico De Pedis, uno dei capi storici della banda della Magliana ucciso in un regolamento di conti, nella cripta della stessa chiesa. Fino

ai casi più recenti di don Carmine Schiavone, giovane vice parroco a Villa Literno (Caserta) posto sotto inchiesta perché era vicino alla famiglia di Nicola Panaro, latitante, e con questi intratteneva un rapporto epistolare tanto ricco di affetto e di premura da far ipotizzare l'accusa di favoreggiamento. Atteggiamenti ambigui dettati talvolta da ingenuità e altre volte da interessi molto chiari.

Come sempre la medaglia ha un'altra faccia e allora anche la chiesa cattolica contempla i suoi martiri da don Pino Puglisi a don Peppe Diana a Rosario Livatino, il giudice ragazzino che viveva il suo impegno implacabile di investigatore contro certi fatti di mafia, da credente. Non mancano, soprattutto  oggi, comunità parrocchiali che denunciano  apertamente soprusi e ritardi, presenze inquietanti e violente nel proprio territorio. Comunità che hanno deciso da tempo di inserire i temi della  legalità  e  della  giustizia  all'interno  dei  propri  percorsi  ordinari  di  catechesi  e  offrono prevalentemente ai più giovani la possibilità di fare esperienze dirette in questi ambiti. Sicuramente la situazione si è evoluta e si sono registrati cambiamenti progressivi e lenti che sono andati di pari passo con la stessa assunzione di consapevolezza che è andata crescendo nella stessa società civile. Insomma ci sono molte attenuanti per un cardinale che nasce a San Benedetto Po, si dedica allo studio della teologia, trascorre i suoi anni di docenza e di rettorato a Roma nella facoltà teologica Lateranense e poi viene nominato arcivescovo di Palermo, se si pensa che nel corpus legislativo italiano la parola «mafi fa la sua comparsa solo nel 1982 con l'articolo 416bis che finalmente riconosce la specificità del reato di «associazione a delinquere di stampo mafioso». Co come bisogna credere alla buona fede di quei sacerdoti che dicono di non aver denunciato o di aver sostenuto taluni esponenti di clan malavitosi in nome di una malintesa prossimità che non chiede la verifica delle appartenenze e delle biografie. Insomma una chiesa quantomeno distratta che non ha mai aperto una riflessione seria e approfondita sui temi della legalità. Restano punti di riferimento alcuni documenti dell'episcopato italiano come Educare alla legalità del 1991 e quelli dedicati alla riflessione sul mezzogiorno d'Italia.

Troppo spesso i valori umani fondamentali e il senso di partecipazione alla civitas sono stati considerati un optional e non hanno riscontrato il contributo determinato e convinto della comunità cristiana  che,  in  un  contesto  come  quello  del  nostro  Paese,  bisogna  registrartra  le  agenzie educative più influenti.

È alla luce di tutto questo che diventa importante il gesto di Papa Francesco di accogliere l'invito a incontrare i familiari delle vittime di mafia. Il gesto, la scelta, i segni prima e più che le parole. Perché se è vero che restano stampate nella memoria collettiva le parole forti di condanna verso i mafiosi pronunciate da Giovanni Paolo II a margine della celebrazione del maggio 1993 nella Valle dei Templi ad Agrigento e le dichiarazioni di inconciliabilità tra mafia e vangelo di Benedetto XVI a Palermo, il gesto di Papa Bergoglio avviene a pochi passi dal Vaticano e dai palazzi del potere di Roma e in un contesto molto diverso da quello di una visita pastorale in una delle regioni in cui la presenza mafiosa ha marcato tradizionalmente il territorio.

Non ha bisogno, il Papa argentino, di spendere troppe parole per sospingere la comunità cristiana ad una maggiore sensibilità corale sul tema della legalità. «Il desiderio che sento è di condividere con voi una speranza, ed è questa: - ha detto Papa Francesco rivolgendosi ai familiari delle vittime - che il senso di responsabilità piano piano vinca sulla corruzione, in ogni parte del mondo... E questo deve partire da dentro, dalle coscienze, e da lì risanare, risanare i comportamenti, le relazioni, le scelte, il tessuto sociale, così che la giustizia guadagni spazio, si allarghi, si radichi, e prenda il posto dell'inequità». Ma poi, questo Papa che ha fatto della misericordia la trama del suo pontificato si rivolge direttamente «agli uomini e alle donne mafiosi» e, supplicandoli «in ginocchio», dice quasi sommessamente: «Convertitevi, ancora c'è tempo, per non finire all'inferno. È quello che vi aspetta se continuate su questa strada. Voi avete avuto un papà e una mamma: pensate a loro. Piangete un po' e convertitevi». Non ha bisogno di aggiungere altro. Le mafie in tutto il mondo non possono più sperare in una chiesa che si volti dall'altra parte. La lotta alle mafie è anche «cosa nostra», ci appartiene. È finalmente e pienamente legittimata nei percorsi della pastorale ordinaria. La ferita è rimarginata.