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Perdonare e farsi perdonare

Il valore della teshuvà ebraica

Di don Franco Barbero

 

Da un incontro a Piossasco — sbobinatura e adattamento non rivisti dall’autore

 

 In “cdb informa" n° 58 – aprile 2014

 

"Nell'ebraismo ci sono alcune parole molto significative che rimandano al concetto di perdono e di colpa: tikkun “tu hai la possibilità di rigenerare il mondo”; teshuvà “ritornare verso di noi, verso l’altro, l’altra, verso Dio”. Queste parole della spiritualità ebraica, che Gesù succhiò con il latte materno e che visse nei villaggi, rappresentano un po’ la pratica del perdono dentro la realtà delle nostre contraddizioni. Per l’ebraismo c’è una benedizione all’origine del tutto. All’inizio era la benedizione e non il peccato, ma c’è anche l’accompagnamento delle nostre incoerenze. Un libro molto bello che vi raccomando è: “Farsi perdonare. Il valore della teshuvà”, scritto da Paolo De Benedetti con Massimo Giuliani. Come sapete De Benedetti, conoscitore insuperabile dell’ebraismo, nella freschezza dei suoi 85 anni continua a darci una serie di racconti che lui ha raccolto dalla sua pratica del Talmud e dagli insegnamenti dei rabbini. In questo testo fa una annotazione sul primo libro della Bibbia e dice: il capitolo iniziale di Genesi usa sempre, per dire Dio, il termine “Elohim”, un nome legato al concetto di giustizia. Ma il capitolo secondo, e questa è un’annotazione precisa, testuale, usa “Jahveh”, che è legato al concetto di misericordia. Quindi, nei due brani della creazione Dio, secondo la tradizione ebraica, non fa mai a meno della giustizia e della misericordia: in qualche modo anche in Lui c’è un conflitto, una battaglia, anche Dio è diviso tra giustizia e misericordia. Ma alla fine, come vedremo, prevale sempre la seconda. Noi facciamo fatica a fare teshuvà, a ritornare a Dio, a tornare a Lui volgendoci affettuosamente agli altri, a ravvederci. Facciamo anche fatica a ritornare verso noi stessi, cioè a perdonarci. Questo è il cammino della teshuvà. In tutto il creato siamo l’unica specie vivente che può tornare sui propri passi. Una delle fatiche della nostra vita è quella di “ritornare”: se l’odio, la rottura di una relazione hanno  costruito una prigione in noi, un allontanamento, la cosa essenziale, che nell’esperienza ebraico-cristiana risulta decisiva, è: “io saprò ripensarmi? saprò rivedermi? saprò convertirmi”. Perché  teshuvà vuol dire questo: “ritornare sui miei passi, riconsiderare la mia vita e fare un movimento nella direzione opposta”. Farsi perdonare, perdonarsi e perdonare è una matassa complessa; verrà poi tradotta nel greco metanoia: la conversione.

Non c’è un momento perdonante assoluto. Specialmente nel Primo Testamento perdonare, perdonarsi, farsi perdonare è sempre un cammino, lento, difficile, contraddittorio. La letteratura del Primo Testamento non mitizza, non esalta mai la capacità di perdonare d’un balzo, completamente. E quindi ripropone  sempre al credente la teshuvà, momenti anche liturgici nella preghiera del mattino, della sera, nello shabbat, nello Yom Kippur, in cui si dice: “ricordati di porre dei gesti di perdono verso gli altri, verso di te, mentre chiedi perdono a Dio e prendi atto della sua riconciliazione; e in questi gesti impegna il tuo cuore. Ricordati che un’azione senza cuore è un’ipocrisia. La teshuvà è compiere dei gesti lentamente, ripetutamente per farli discendere nel tuo cuore”.

Nell’esperienza del movimento di Gesù ci sarà un’esplosione di questo sentimento della teshuvà.

Devo dire che nei secoli le chiese cristiane qualche cosa hanno fatto, hanno cercato di coniugare questa esigenza con dei riti. Per esempio nel II secolo nacque la cosiddetta penitenza antica: se tu avevi ucciso non partecipavi più all’eucaristia, ma rimanevi fuori del luogo di culto, in attesa di un tempo di conversione. Inoltre non c’era nessun uomo e nessuna donna che potessero perdonare un altro liturgicamente; la comunità si radunava ed organizzava un cammino di conversione. La penitenza antica non conosceva la figura di un assolutore, di cui   compare notizia, per la prima volta, in un documento  intorno al 560, in Spagna. Ma un Concilio dice: “abbiamo saputo che c’è qualche sacerdote che dà un’assoluzione dai peccati: è assolutamente proibito”. Nel 1215, nel II Concilio Lateranense, viene stabilito un numero fisso di sacramenti: 7, e viene disposto che solo il prete, che allora si era già trasformato da  presbitero in “sacerdox”, può assolvere dai peccati. Questo è tutt’ora vigente, ma nel Concilio Vaticano II viene deciso che si può fare la liturgia penitenziale comunitaria, dove nessuno assolve, ma si annuncia che Dio genera in noi il perdono, ci garantisce la sua riconciliazione. Sono rimaste entrambe: la confessione individuale e quella della liturgia. Lungo i secoli l’esperienza del perdono ha assunto molte forme. In seguito il potere sacro si è arrogato la facoltà di perdonare: questo è stato il grande errore. Il perdono è l’azione congiunta di Dio e nostra; non c’è nessuno che, magicamente o per una potestà, mi può perdonare. E’ il movimento dei nostri cuori che asseconda l’azione di Dio, la presa d’atto che Dio è per noi misericordia.

Nell’itinerario liturgico delle varie confessioni: ebraiche, islamiche, cristiane, ci sono molti momenti belli, come per esempio nel muro del pianto per l’ebraismo, nei quali ci si domanda, in silenzio, nella preghiera, nell’annuncio, nella liturgia, cosa possiamo fare per ritornare a Dio, per ritornare a noi stessi.

Riandando alla teshuvà si può dire che ha tre chiavi per perdonare e perdonarsi: una ce l’ho io dall’interno, un’altra ce l’ha chi mi perdona, ma sovente queste due chiavi da sole non sono sufficienti, perché nella vita succede anche l’imperdonabile, come la Shoah per gli ebrei.

C’è a volte l’imperdonabile tra di noi, può esserci qualcosa che è più grande di noi. La mistica cristiana, in certe forme un po’ devianti, ha detto che tutto si può perdonare: la donna stuprata deve perdonare…. L’ebraismo riflette in un altro modo: c’è dell’imperdonabile, esiste  un’impossibilità, a volte, di perdonare, ma c’è una “terza chiave” ed è Dio che pronuncia il suo unico perdono, ma esige che noi facciamo  giustizia sulla terra.

Nel cammino del perdono proviamo  una grande fatica a perdonarci, perché sovente nasce il rimpianto, la difficoltà di andare oltre e sorge il cosiddetto “senso di colpa”. Secondo gli autori del libro noi siamo ad un bivio: o ci assolviamo totalmente, o ci condanniamo per tutto. Chi si assolve completamente non diventa mai un essere responsabile, perché non trova mai la sua colpa, non riconosce mai dove ha sbagliato; ma chi si condanna di tutto, ugualmente non si vede nella realtà. Occorre trovare un equilibrio che mi consenta di essere responsabile, non girare attorno ai miei errori, non involvere, non imprigionare la mia vita nei miei sbagli.

Nella nostra esperienza cristiana, spesso abbiamo l’idea di un Dio della perfezione, che esige da noi la santità; questo ha funestato la nostra educazione religiosa. L’idea della santità, della perfezione, di un Dio che la esige da noi, non solo ha offeso la realtà di Dio, ma ha reso difficili i rapporti tra noi, perché o c’è la finzione o la menzogna, o il senso di colpa.

Nel libro ci sono due bei racconti che dicono: Israele, tu sarai colui che si allontana continuamente da me, ma io sarò sempre colui che ti cerca; tu non saprai venirmi incontro, ma io ti incontrerò. Quanto sono belli i racconti del Talmud e delle novelle ebraiche!

Il senso di colpa paralizza il nostro cammino. Quello che bisogna cancellare dentro di noi è l’idea di perfezione: non saremmo creature! Prendere atto della nostra creaturalità, del nostro limite, della nostra fallibilità è una delle conquiste del cammino di fede.

Questo è stato l’insegnamento di Gesù ai discepoli: il vangelo di Luca è tutto un cammino in cui li educa, li guarda negli occhi, li rimprovera amabilmente, li sorregge in questo percorso.

Rispetto al senso di colpa ci sono due eccessi. Nella nostra società tutto è diventato possibile, de-colpevolizzato e questo è un modo per perdere la responsabilità. Ma all’opposto, nelle nostre tradizioni religiose ci ha perseguitati lungamente il senso di colpa: non siamo mai all’altezza, non abbiamo mai fatto abbastanza, non l’abbiamo mai fatto abbastanza bene. Questo rende brutto Dio, perché Egli non ci vuole santi, ma donne e uomini come siamo e così ci ama. La condizione per sentirci liberi e in cammino,  nella teshuvà è quella di cancellare da noi l’orizzonte della perfezione, perché essa è una malattia. Vi ricordate il libro della  nostra grande scienziata  Rita Levi-Montalcini:“Elogio dell’imperfezione”? Se la scienza non conoscesse l’imperfezione non procederebbe. E’ proprio l’imperfezione, la consapevolezza della nostra creaturalità e della nostra fallibilità che ci fanno andare avanti.

Che cos’è che ci permette, come credenti, di perdonare a noi e di perdonare agli altri? E’ il fatto che Dio ci perdona. La teshuvà, Dio che viene a noi, ci permette questa grande pace con Lui e di recuperare la dimensione del rapporto con gli altri. Dio come forza, come invito, come stimolo, sorgente di teshuvà, un Dio che ci viene incontro perché possiamo andare incontro a noi stessi ed agli altri. Un’altra riflessione che si deve fare è che il perdono è un cammino graduale: non siamo angeli svolazzanti, ma creature camminanti. Dobbiamo essere consapevoli che nella nostra vita il quotidiano, il piccolo passo che facciamo è veramente quello che Dio ama e su cui Egli sorride. Ogni persona nella propria esistenza può fare teshuvà, può sentire che Dio viene verso di lei e che, in qualche modo, essa può andare verso l’amore per sé e verso l’amore per gli altri.

Gesù nell’ebraismo viene visto come il paradosso dell’amore per il nemico. Dai maestri di Israele Gesù viene considerato colui che ha portato l’amore all’estrema conseguenza. Wiesel e i grandi studiosi ebraici della figura di Gesù dicono: “Il nostro maestro Yeshua ci ha superato, perché ha continuato la tradizione del Pentateuco e dei profeti ed andando oltre Geremia ed Ezechiele ha reso il perdono illimitato. Nella via del perdono non dobbiamo mai tornare indietro, il perdono è una strada mai finita, una strada in cui dovremo andare avanti sempre.

Nel Secondo Testamento la parola “perdonare” ricorre 142 volte, segno che era già un problema allora. Questo è molto consolante! Si vede che nelle comunità paoline il rancore, l’odio erano una realtà molto presente. L’umanità del Secondo Testamento è straordinariamente bella: 142 volte “perdonare” significa che nella realtà dei nostri vissuti c’è questo grande cammino da compiere, mai finito, mai da interrompere.

Nella nostra storia c’è stato anche il perdonismo, che è una cosa molto diversa dal perdonare! E’ l’incapacità di affrontare i conflitti e di dirci le cose; è quello che copre, che nasconde le tensioni; che dice: “volemose tutti bene” ed ha creato una confusione politica e culturale. Il perdonismo delle chiese cristiane è quello che ha impedito a noi di riconoscere, perdonandoci, i nostri debiti del passato. Quindi il perdonismo, come mania politica e culturale, è nemico della verità.

Un’altra riflessione che mi sembra importante è sulle ferite aperte della nostra esistenza. Sarebbe ingeneroso pensare che con un atto di fede e di volontà noi dimentichiamo tutte le lacerazioni irrisolte della nostra vita: impossibile! Il perdono, anche quello di Dio, deve essere situato nel contesto umano: chi ha perso un figlio nella guerra, una donna stuprata, un bambino violentato, un operaio licenziato e vilipeso, e tanti altri esempi che potremmo fare, sono ferite aperte e bisogna ricordare che chiedere a queste persone atti di esaltante perdono sovente è una falsità, è un’ipocrisia.

La teshuvà può rappresentare un cammino verso il perdono, ma non dobbiamo mai sacrificare la nostra umanità. Noi siamo persone di cui si possono curare le ferite, qualche volta anche guarirle. Ma certe afflizioni lasciano una traccia che nemmeno Dio può chiederci di dimenticare. Ci possono essere delle sofferenze enormi nella vita, a livello personale, o anche collettivo: non è lecito dire a chi ha avuto un figlio bruciato nel forno crematorio: “devi perdonare…”

Non c’è un cammino di fede che prescinda dalla nostra umanità e sarebbe una pessima educazione cristiana per i bimbi, i giovani, le persone, ma prima di tutto per noi, quella di vedere nella fede il superamento di tutte le nostre difficoltà. Dio è un Dio che cammina con noi; anche nella teshuvà è un Dio che ci aiuta a perdonare agli altri, alle altre, a noi stessi e soprattutto che vuole darci la pace.

Quello che abbiamo fatto e ciò che non abbiamo fatto sta nel perdono e nelle mani di Dio. La nostra vita, nella sua semplicità, è sotto il sorriso di Dio. Che bello questo pensare il Dio della compagnia!

Nei due passi di Geremia 31,26-29  e di Ezechiele 18,1-4 si legge: “non dite mio padre, mia madre hanno sbagliato e io ne porterò le conseguenze”; purtroppo nella storia si subiscono alcuni effetti, ma non c’è il peccato di qualcuno che ricade su di te: davanti a Dio tu nasci nella tua identità, Egli non ti carica le colpe del tuo popolo, perché il Suo amore, come dice il salmo 136, non ha mai fine. Per l’ebreo la teshuvà vuol dire vivere in pace, sapendo che Dio ti accompagna, in pace con ciò che tu sei stato, sei stata, con ciò che hai potuto/non hai potuto fare; in pace, se puoi, con gli altri. Cerca questo cammino, perché ricordati che solo se hai la pace fai tikkun; solo se sei un uomo, una donna di pace potrai costruire qualcosa nel mondo, nelle relazioni. Se tu non ti sei perdonato, se non hai accolto il perdono di Dio dentro di te, non c’è tikkun che tenga, non si costruisce il futuro. Senza la pace nel tuo cuore, senza il sorriso di Dio sopra di te, tu vagherai, ma non costruirai il mondo nuovo, quello che viene chiamato “il regno di Dio” .