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Pericolo!


 di Ignacio Ramonet

Adista Documenti n° 17 del 10/5/2014

Tra due mesi, il 25 maggio (…), alle elezioni per il Parlamento Europeo (…), tra i temi che bisognerà seguire con maggiore attenzione c’è quello del Trattato Transatlantico per il Commercio e gli Investimenti, che stanno negoziando con la massima discrezione e senza alcuna trasparenza Unione Europea e Stati Uniti. Il suo obiettivo è creare la più grande area di libero commercio del pianeta, con circa 800 milioni di consumatori, che rappresenterà quasi la metà del Prodotto Interno Lordo mondiale e un terzo del commercio globale.

La UE è la principale economia del mondo: i suoi 500 milioni di abitanti dispongono in media di redditi annuali pari a 25mila euro pro-capite. Ciò significa che la UE è il più grande mercato mondiale e il principale importatore di beni manifatturieri e di servizi, dispone del maggior volume di investimenti all’estero ed è il principale ricettore planetario di investimenti. La UE è anche il primo investitore negli USA, la seconda destinazione dell’esportazione statunitense di beni e il maggior mercato per l’esportazione statunitense di servizi. La bilancia commerciale dei beni riporta per la UE un attivo di 76.300 milioni di euro; e quella dei servizi un deficit di 3.400 milioni. Gli investimenti diretti della UE negli USA, e viceversa, si aggirano sugli 1,2 miliardi di euro. 

Washington e Bruxelles vogliono concludere il negoziato entro due anni, prima che finisca il mandato del presidente Barack Obama. Perché tanta fretta? Perché, per Washington, questo accordo ha un carattere geostrategico. Costituisce un’arma decisiva di fronte all’irresistibile crescita della potenza cinese e anche di quella delle altre potenze emergenti del gruppo dei Brics (Brasile, Russia, India e Sudafrica). Bisogna precisare che, tra il 2000 e il 2008, il commercio internazionale della Cina si è più che quadruplicato: le sue esportazioni sono aumentate del 474% e le importazioni del 403%. Conseguenze? Gli Stati Uniti hanno perso il primato tra le potenze commerciali che ostentavano da un secolo. Prima della crisi finanziaria del 2008, gli USA erano il socio commerciale più importante per 127 Stati del mondo; la Cina solo per 70 Paesi. Questo rapporto si è oggi invertito: la Cina è diventata il socio commerciale più importante per 124 Stati, mentre gli USA solo per 76.

Cosa significa? Che Pechino, in un termine massimo di dieci anni, potrebbe fare della sua moneta, lo yuan, l’altra grande valuta degli scambi internazionali e minacciare la supremazia del dollaro. È sempre più chiaro, anche, che le esportazioni cinesi non riguardano più solo prodotti di scarsa qualità a prezzi accessibili grazie alla manodopera a basso costo. L’obiettivo di Pechino è elevare il livello tecnologico della sua produzione (e dei suoi servizi) per diventare domani leader anche in quei settori (informatica, finanza, aereonautica, telefonia, ecologia) che gli USA e altre potenze tecnologiche occidentali pensavano di poter preservare. Per tutte queste ragioni, ed essenzialmente per evitare che la Cina diventi la prima potenza mondiale, Washington desidera blindare grandi aree di libero scambio in cui i prodotti di Pechino avrebbero difficile accesso. In questo stesso momento, gli USA stanno negoziando con i soci del Pacifico un Accordo Transpacifico di Libero Scambio (Trans-Pacific Partnership, TPP), gemello asiatico del TTIP.

Per quanto la discussione sul TTIP sia iniziata negli anni ’90, Washington ha esercitato pressioni per accelerare le cose. E i negoziati effettivi hanno preso avvio immediatamente dopo l’approvazione da parte del Parlamento Europeo, con i voti della destra e della socialdemocrazia, di un mandato per negoziare (...). Un rapporto elaborato dal Gruppo di Lavoro di Alto Livello sull'Impiego e la Crescita, creato nel novembre del 2011 dalla UE e dagli USA, raccomandava l’inizio immediato dei negoziati. 

La prima riunione si è tenuta a Washington nel luglio del 2013, seguita da altre due a ottobre e dicembre. E per quanto  i negoziati siano attualmente sospesi a causa di divergenze in seno alla maggioranza democratica del Senato degli Stati Uniti, le due parti sono decise a firmare il TTIP il più presto possibile. Di tutto questo i grandi mezzi di comunicazione hanno parlato poco, nella speranza che l'opinione pubblica non prenda coscienza di ciò che c'è in gioco, e che i burocrati di Bruxelles possano decidere delle nostre vite con tutta tranquillità e in piena opacità democratica.


TUTTI I RISCHI DEL TRATTATO

Con questo accordo di marcato carattere neoliberista, gli USA e la UE intendono eliminare i dazi e aprire i propri rispettivi mercati a investimenti, servizi e contrattazione pubblica, ma soprattutto mirano a omogeneizzare gli standard, le norme e i requisiti per la commercializzazione di beni e servizi. Secondo i difensori di questo progetto di libero scambio, uno degli obiettivi sarà quello di avvicinarsi il più possibile ad una totale eliminazione di tutti i dazi del commercio transatlantico di beni industriali e agricoli. Quanto ai servizi, l'idea è di aprire il settore almeno nella misura in cui si è riusciti a farlo, finora, in altri accordi commerciali ed estenderlo ad altre aree, come quella dei trasporti. Rispetto all'investimento finanziario le due parti aspirano a raggiungere i livelli più alti di liberalizzazione e protezione degli investimenti. E riguardo ai contratti pubblici, l'accordo prevede che le imprese private abbiano accesso a tutti i settori dell'economia (inclusa l'industria della Difesa), senza alcuna discriminazione.

Sebbene i mezzi di comunicazione dominanti appoggino senza restrizioni questo accordo neoliberista, le critiche si sono moltiplicate soprattutto all’interno di alcuni partiti politici, di numerose ONG e di organizzazioni ecologiste e in difesa del consumatore. Per esempio, Pia Eberhardt, della ONG Corporate Europe Observatory, denuncia che i negoziati sono stati portati avanti senza trasparenza democratica e senza che le organizzazioni della società civile fossero messe a conoscenza nei dettagli di quello che si è concordato fino ad ora: «Esistono documenti interni della Commissione Europea - dichiara l'attivista - che indicano come questa si sia riunita, nella fase più importante, esclusivamente con gli imprenditori e le loro lobby. Non c’è stato un solo incontro con organizzazioni ecologiste, con sindacati o con associazioni per la difesa del consumatore». Eberhardt osserva con inquietudine una possibile riduzione dei requisiti per l'industria alimentare. «Il pericolo – commenta – è rappresentato dagli alimenti non sicuri importati dagli USA che potrebbero contenere altri transgenici, o dai polli disinfettati con cloro, un procedimento proibito in Europa». E aggiunge che l'industria agricola e dell’allevamento statunitense esige l'eliminazione degli ostacoli europei per questo tipo di esportazioni.

Altri critici temono le conseguenze del TTIP in materia di educazione e di conoscenza scientifica, in quanto questo potrebbe estendersi ai diritti intellettuali. In questo senso, la Francia, per proteggere il suo importante settore audiovisivo, ha già imposto un’“eccezione culturale”. Il TTIP non riguarderà le industrie culturali.

Varie organizzazioni sindacali denunciano che l'Accordo Transatlantico comporterà senza dubbio forti tagli sociali e riduzione dei salari, come pure la distruzione di posti di lavoro in diversi settori industriali (elettronica, comunicazione, attrezzature dei trasporti, metallurgia, carta, servizi per le imprese) e agrari (allevamento, agrocombustibili, zucchero).

Gli ecologisti europei e i difensori del commercio equo spiegano inoltre che il TTIP, eliminando il principio di precauzione, potrebbe facilitare la soppressione di normative ambientali o di sicurezza alimentare e sanitaria, nel momento stesso in cui può comportare una diminuzione delle libertà digitali. Alcune ONG ambientaliste temono che anche in Europa si incominci a introdurre il fracking, ossia l'uso di sostanze chimiche pericolose per le falde acquifere, al fine di sfruttare il gas e il petrolio di scisto.

Ma uno dei principali pericoli del TTIP è che incorpori un capitolo sulla “protezione degli investimenti”, che potrebbe aprire le porte a richieste di risarcimenti miliardari da parte di imprese private in tribunali internazionali di arbitraggio (al servizio delle grandi multinazionali) contro gli Stati che, allo scopo di proteggere l'interesse pubblico, provochino una “limitazione dei profitti degli investitori stranieri”.

Quello che è in gioco qui è semplicemente la sovranità degli Stati e il loro diritto a realizzare politiche pubbliche a favore dei cittadini. Per il TTIP i cittadini non esistono, vi sono solo consumatori, e questi appartengono alle imprese private che controllano i mercati.

La sfida è immensa. E la volontà della cittadinanza di fermare il TTIP non deve essere da meno.