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Il mito della crescita impossibile

 

Francesco Gesualdi 

 

 Adista Documenti n° 26 del 18/07/2015

 

alcuni stralci del terzo capitolo da: Francesco Gesualdi Risorsa umana. L'economia della pietra scartata, edito dalle Edizioni San Paolo (pp. 203, euro 14,50,

 

SEDOTTI E ABBANDONATI

Una caratteristica del capitalismo è l'imprevedibilità. Organizzato attorno a un obiettivo (massimizzare i profitti) e una filosofia (che vinca il più forte), le sue strategie cambiano di continuo in base alle opportunità che il contesto può offrire. Spesso con ottimi risultati come la globalizzazione conferma. L'elemento di prova è fornito dalla divisione della ricchezza prodotta. Negli ultimi trent'anni, a livello mondiale, la quota di prodotto lordo assegnata ai salari è scesa costantemente passando dal 62% nel 1980, al 54% nel 2012. (…). In Italia la diminuzione è stata addirittura dell'11,8%, contro il 6,2% della Francia e il 4,2% del Giappone.

La riduzione salariale è solo una faccia della medaglia. L'altra, almeno per ciò che concerne il Nord del mondo, è l'aumento della disoccupazione. (…). Hackett Group, una multinazionale specializzata in consulenza aziendale, stima che in Europa e Nord America il settore dei servizi informatici e finanziari perda ogni anno 250mila posti e che entro il 2017 il totale dei posti persi, rispetto al 2002, sarà vicino a quattro milioni. Ancora peggio per il settore manifatturiero. L'istituto americano ITIF stima che nel decennio scorso gli Stati Uniti abbiano perso quasi sei milioni di posti, di cui due per la predominanza commerciale della Cina. In Europa non è andata certo meglio. Tra il 1995 e il 2009 sono stati persi cinque milioni di posti. Se consideriamo che l'emorragia è continuata anche negli anni successivi e che tra il 2008 e il 2013 ne sono stati persi altri tre milioni e mezzo, arriviamo a una perdita complessiva di otto milioni in 20 anni.

In conclusione, un numero crescente di persone, anche nella nostra parte di mondo, sta scoprendo la crudeltà dell'ideologia mercantile che divide l'umanità in due categorie: gli utili e gli inutili. I primi necessari al sistema come lavoratori, come consumatori o come entrambi. I secondi inutili da qualsiasi punto di vista (...).

II segnale che ci giunge è chiaro: dobbiamo prepararci ad arruolarci nell'esercito degli inutili che già comprende le masse di diseredati del Sud del mondo. Le avvisaglie sono nei numeri. Quelli della disoccupazione prima di tutto. Ma già stabilire chi sono i disoccupati è un'avventura. Secondo gli istituti di statistica, il “disoccupato doc” deve rispondere a due requisiti: desiderare un lavoro salariato e darsi da fare per trovarlo. Nell'Europa dei 27 le persone in questa condizione sono una trentina di milioni, pari al 12% della forza lavoro. In Italia, novembre 2014, sono 3,4 milioni, pari al 13,4%. Ma gli istituti di statistica ci avvertono che, oltre ai disoccupati che cercano attivamente lavoro, ce ne sono altri che pur volendolo non lo cercano perché hanno perso le speranze. Tecnicamente definiti inattivi o scoraggiati, in Italia rappresentano un esercito di altri tre milioni di persone.

I giovani sono tra i più colpiti. In Italia la popolazione tra i 15 e i 34 anni, anno 2013, ammonta a 13.205.000 giovani. Di essi 4.056.000 studiano (31%) e 5.307.000 lavorano (40%). Mancano all'appello 3.842.000 giovani, il 29% del totale, e nessuno sa cosa facciano. Sono i famosi “Neet”, sigla inglese che sta per Not in Education, Employment or Training. Né studiano, né lavorano, probabilmente non si alzano neanche da letto perché non hanno prospettiva di vita. Giovani a carico delle famiglie, pensionati alla rovescia, tant'è che il 66,8% di tutti i giovani tra 15 e 34 anni, quasi nove milioni, vivono ancora con i genitori, indipendentemente da ciò che fanno, perché anche molti di quelli che lavorano non sanno come sbarcare il lunario. Il 25% di loro ha un lavoro a termine, il 21% un lavoro part time. Praticamente persone a rischio povertà.

Sedotti e abbandonati, ecco cosa siamo. Prima braccati per impedirci di non avere altro modo di provvedere a noi stessi se non vendendo il nostro lavoro. Poi, una volta convinti che l'importante è guadagnare tanti soldi per comprare tutto quello che la pubblicità fa sognare, ci hanno strappato il tappeto da sotto i piedi. (…).

I CONTI SENZA L'OSTE

(…). Vivessimo in un'Europa normale, vale a dire organizzata per servire i cittadini e non solo le banche, questo sarebbe il tipico momento in cui bisognerebbe stampare nuova moneta per permettere ai governi di assumere milioni di disoccupati da occupare nella miriade di bisogni collettivi insoddisfatti: dalla rimessa in sicurezza dei fiumi alla riparazione degli edifici pubblici, dal potenziamento del personale sanitario e scolastico alla presa in cura di persone emarginate, dalla seria organizzazione del riciclaggio dei rifiuti, alla ricerca scientifica. Magari in associazione con la riduzione generalizzata dell'orario di lavoro.

Invece no. L'unico comparto da cui ci si attende la creazione di posti di lavoro è quello privato, che però pretende condizioni favorevoli. Due in particolare: un basso costo del lavoro e una spesa più alta da parte dei cittadini. Ecco perché tutti i governi promettono al tempo stesso riduzione delle tasse e la cosiddetta riforma del lavoro. La prima per lasciare ai cittadini più soldi da spendere. La seconda per lasciare alle imprese più libertà di licenziamento.

L'intero pacchetto è strombazzato come promozione della crescita, ma sulla possibilità di riuscita permangono dubbi. Pretendere di promuovere occupazione in ambito privato, senza imprimere una svolta ad austerità e globalizzazione selvaggia, che sono all'origine del problema, è come pretendere di rilanciare un auto col freno a mano tirato.

Ciò che stupisce di più, tuttavia, è che tutti propongono la crescita come via d'uscita, dimenticando che non siamo all'anno zero dello sviluppo produttivo. Benché in crisi, continuiamo ad essere un Paese con un Pil pro capite di 25mila euro all'anno. Consumiamo 90 kg di carne pro capite all'anno, abbiamo 52 auto ogni 100 abitanti, abbiamo più di un telefonino a testa. E se misuriamo la quantità di materia racchiusa nei beni che consumiamo ogni anno, sono 16 tonnellate a testa, che diventano 50 se consideriamo anche gli “zaini ecologici”, ossia i materiali utilizzati e i rifiuti rilasciati lungo le filiere produttive. Il punto è che questo consumo di materiale il pianeta non se lo può permettere. O, meglio, l'umanità non se lo può permettere se vuole garantirsi un futuro.

Perfino le tecnologie moderne rischiano un contraccolpo, a causa della scarsità di risorse. Nel 2009 il Dipartimento dell'Energia degli Stati Uniti fu costretto a rinviare l'obbligo di produrre lampade al fluoro di seconda generazione a causa dell'elevato prezzo dei minerali implicati: l'europio, il terbio e altri metalli definiti terre rare per la loro scarsa diffusione. I pannelli solari sottili hanno bisogno di tellurio che rappresenta lo 0.0000001% della crosta terrestre, tre volte più raro dell'oro. Le batterie ad alta efficienza energetica hanno bisogno di litio che è estratto facilmente solo nei depositi salmastri delle Ande. Il platino, usato come catalizzatore nelle celle che trasformano l'idrogeno in energia elettrica, proviene quasi esclusivamente dal Sudafrica. Ma il vero monopolista delle terre rare è la Cina, che controlla il 97% della produzione: quando, nel 2011, decise di ridurne la vendita per un contenzioso col Giappone, i prezzi aumentarono del 750% mettendo in difficoltà molti settori moderni.

Il petrolio e il gas sono altre due risorse che stanno andando verso il tramonto e benché oggi si faccia finta che il problema non esiste perché si sono inventate nuove tecnologie che consentono di estrarre petrolio e gas da materiale bituminoso sotterraneo, in realtà i problemi di approvvigionamento persistono. L'ostacolo si chiama incompatibilità ambientale. Le tecnologie utilizzate, oltre a lasciare sul terreno abbondanti quantità di detriti tossici, debbono utilizzare enormi quantità di acqua che non sempre c'è. Nel 2014 un rapporto di Ceres, istituto ambientalista americano, ha gettato una doccia fredda sull'entusiasmo suscitato dal gas di origine bituminosa (shale gas) di cui gli Stati Uniti sembrano particolarmente ricchi. Il rapporto ha messo in evidenza che il 47% dei depositi si trova in zone povere d'acqua, creando seri problemi per l'estrazione.

SOS CIBO

Prima dell'energia, è sicuramente l'acqua la risorsa più problematica per l'umanità. Se nel 1950 a livello mondiale se ne consumavano 1.382 chilometri cubi, nel 2010 eravamo a 4.431, mentre si prevede che nel 2025 saremo a 5.235. Una crescita ritenuta insostenibile perfino da potenti multinazionali come Nestlé, che stanno investendo somme importanti per lo stoccaggio e il risparmio di acqua. (…). 

«Il whisky è per bere, l'acqua per combattersi», sosteneva Mark Twain, autore di Vita sul Mississippi. Il Senato americano conferma. In un rapporto emesso nel febbraio 2011, paventa forti tensioni tra Pakistan, Cina e India sulla gestione dei fiumi che interessano i tre Stati. Intanto vari osservatori sostengono che Israele continua a occupare le alture del Golan, strappate alla Siria nel 1967, per assicurarsi il controllo del monte Hermon da cui nasce il fiume Giordano.

Complice l'inquinamento, la crescita demografica e l'uso dissennato che ne abbiamo fatto, in molte regioni di acqua non ce n'è più per tutte le necessità. In altre parole bisogna scegliere se si vuole privilegiare l'industria, gli usi domestici o la produzione di cibo. La mancanza di acqua contribuisce anche a un colonialismo di ritorno noto come land grabbing, furto di terre.

Nell'aprile 2012, la regione di Gambela, Etiopia, è stata teatro di scontri e combattimenti contro la presenza della Saudi Star Agricultural Development Plc, una società posseduta da Mohamed Hussein Al Amoudi, cittadino dell'Arabia Saudita, 79° uomo più ricco del mondo secondo la graduatoria di Forbes. Attento ai segni dei tempi, Al Amoudi ha capito che l'affare del nuovo millennio è il cibo, perciò sta facendo razzia delle terre migliori in Africa per produrre derrate alimentari da esportare nei Paesi più ricchi non più autosufficienti a causa della penuria di acqua e terreni, come è il caso dell'Arabia Saudita.

In Etiopia, Al Amoudi ha scelto la regione di Gambela perché è una delle più fertili del Paese. Il governo gli ha concesso 10mila ettari di terra per la produzione di riso e altre derrate per l'esportazione. Ma erano zone abitate, i residenti sono stati sgomberati con la forza. Si calcola che almeno un milione di persone siano state costrette a trasferirsi altrove, tra resistenze e conflitti.

Tra il 2001 e il 2011, le terre occupate nel Sud del mondo da imprese estere hanno totalizzato 227 milioni di ettari, una superficie grande sette volte l'Italia, sfruttata non solo per la produzione di cibo, ma anche di bioetanolo. Scelta folle di una civiltà che, non conoscendo limiti nel consumo di energia, sacrifica il suo stesso cibo, mentre un miliardo di persone soffre la fame.

Nel suo libro Pianeta pieno, piatti vuoti, Lester Brown, uno dei maggiori esperti mondiali di alimentazione, sostiene che stiamo andando verso una scarsità di cibo anche a causa dell'erosione dei suoli dovuta a un eccesso di sfruttamento dei terreni. Lo stesso eccesso di sfruttamento che ci sta ponendo di fronte a un'altra drammatica situazione: lo svuotamento dei mari. (…).

Il pesce prelevato dai mari è passato da 17 milioni di tonnellate nel 1950 a 80 milioni nel 2009. Un aumento del 370% dovuto al fatto che l'industria della pesca oggi dispone di pescherecci che possono spingersi in mari sempre più profondi, starci più a lungo e pescare di più. Attraverso tecnologie sofisticate possono individuare dove si trovano i branchi e catturarli nella loro interezza. (…). Certe tonnare possono catturare fino a 3mila tonnellate di tonno nello stesso viaggio, più di quanto alcune nazioni riescono a pescare in un intero anno. (…). E i risultati si vedono. Il 63% dei branchi marini sono pescati in quantitativi che mettono a rischio la disponibilità futura. Rispetto al 1960 abbiamo già perso il 99% delle anguille europee e il 95% del tonno del Pacifico.

LA RIVOLTA DEL PIANETA

(…). L'Ipcc, Intergovernmental Panel on Climate Change, un gruppo di lavoro istituito dalle Nazioni Unite che si avvale della collaborazione di migliaia di scienziati, ha ormai certificato che tra il 1880 e il 2012 c'è stato un aumento medio globale della temperatura di superficie di 0,85°C. La maggior parte dell'incremento (0,6°C) si è registrato tra il 1980 e il 2010, facendo della nostra epoca il periodo più caldo dell'emisfero settentrionale da almeno 1.400 anni. Tra le conseguenze più gravi: lo scongelamento delle calotte polari, l'innalzamento dei mari, l'alterazione delle precipitazioni, la desertificazione.

Ciò che sfugge, è che perfino i Ministeri della Difesa si occupano di cambiamenti climatici. Il 14 agosto 2014, a Sydney, si è tenuto un incontro interministeriale al quale hanno partecipato esponenti militari e politici di Stati Uniti e Australia per discutere, tra l'altro, di rischi climatici da affrontare militarmente. Del resto il Dipartimento della Difesa statunitense produce periodicamente rapporti sui cambiamenti climatici. Quello emesso nel 2014 dice chiaramente che l'esercito deve «stare all'erta per valutare come i cambiamenti climatici possono aggravare situazioni di povertà, degrado ambientale, instabilità politica e tensioni sociali, capaci di innescare conflitti e instabilità dannosi per gli interessi degli Stati Uniti». (…).

A noi che non portiamo le stellette, i cambiamenti climatici interessano per i drammi umani che possono provocare. Già nel 1976 Lester Brown aveva coniato l'espressione «rifugiati climatici» a indicare tutti coloro che possono essere costretti ad abbandonare le proprie case per le conseguenze indotte dai cambiamenti climatici. Basti pensare che se la Groenlandia dovesse squagliarsi completamente, ci sarebbe un aumento del livello dei mari di oltre sei metri che sommergerebbe l'80% di tutte le città costiere. Una previsione dell'Environmental Justice Foundation parla di 150 milioni di rifugiati climatici entro il 2050. Già nel 2013 sono stati contati 22 milioni di sfollati per disastri naturali.    

Che i cambiamenti climatici produrranno gravi danni umani ed economici è ormai fuori discussione. Come è fuori discussione che noi abbiamo dato una bella mano immettendo nell'atmosfera quantità enormi di gas serra (...). Ma, in tempo di crisi, il tema dei cambiamenti climatici è uscito dal dibattito pubblico e tutti vaneggiamo di crescita, dimenticando che una crescita del 3% all'anno significa il raddoppio della nostra economia nel giro di 23 anni. Quindi il doppio di risorse consumate, di anidride carbonica, di rifiuti.

Sì, certo, nel nostro delirio vaneggiamo di crescita pulita. Anzi diciamo che utilizzeremo l'esigenza stessa di ripulire il pianeta come occasione per crescere. È la famosa green economy, chiusura perfetta del cerchio di quella stessa follia che invoca guerre e sciagure come strada per accrescere produzione e consumo. (…). 

NON SEMPLICE TAGLIO, MA NUOVO MODELLO

(…). Quanto sia mal distribuito il consumo tra le nazioni del mondo ce lo dice l'impronta ecologica, un concetto elaborato da alcuni ricercatori americani per valutare l'impatto dei nostri consumi sulla natura. Più precisamente, l'impronta ecologica misura la quantità di terra fertile utilizzata da ogni individuo per sostenere i propri consumi. (…). Per esempio, ogni volta che bruciamo un litro di benzina abbiamo bisogno dell'intervento di cinque metri quadrati di foresta.

Facendo tutti i conti, si scopre che ogni americano utilizza 7 ettari di terra fertile, mentre un bengalese 0,7. Gli italiani stanno nel mezzo con 4,7 ettari. Se prendiamo l'insieme delle terre fertili del mondo e le dividiamo per la popolazione terrestre, troviamo che ogni abitante può avere un'impronta di 1,8 ettari. Gran parte della popolazione terrestre sta sotto, ma poiché i benestanti sono largamente al di sopra, nel complesso l'impronta media mondiale è di 2,7 ettari che è il 50% più alta di quella ammissibile. Non a caso l'anidride carbonica si sta accumulando nell'atmosfera, chiara dimostrazione che già oggi avremmo bisogno di un altro mezzo pianeta.

Naturalmente possiamo continuare a fare la scelta della prepotenza, ma facciamolo ad occhi aperti, consapevoli che tutto ha un prezzo. Il prezzo della prepotenza si chiama violenza e paura.  (…). Con la guerra in Iraq abbiamo riaperto la stagione del colonialismo vecchia maniera, quando si usavano le truppe di occupazione per mettere le mani sulle risorse strategiche. Siamo tornati alle armi per il petrolio, ma potremmo farlo per l'acqua, i mari, le terre. Con l'assottigliarsi delle risorse tutto può diventare prezioso, il bisogno di conquista potrebbe farsi così pressante da trasformarci in un popolo di soldati come succedeva al tempo di Roma. I figli dell'impero alla guerra, gli schiavi nei campi e nelle botteghe per produrre il cibo e le spade.

Dominazione militare oltre confine, potere poliziesco in patria per contenere terrorismo e malavita: impronte digitali, intercettazioni, fermi di polizia oltre misura, limitazioni di diritti e libertà per tutti i cittadini. Guerrieri oltre le mura, prigionieri dentro il castello: se la prospettiva di violenza e paura non ci piace, non abbiamo che da fare un passo indietro per garantire un avvenire dignitoso agli altri popoli. Ma in concreto quali misure dovremmo adottare?

Per alcuni il problema è solo tecnologico. Basta adottare una diversa tecnologia per produrre energia da sole, vento e altre fonti rinnovabili invece che dai combustibili fossili. Una diversa tecnologia per ridurre il fabbisogno energetico costruendo case ben isolate, motori che evitano dispersioni, elettrodomestici più efficienti. Una diversa tecnologia per produrre oggetti più leggeri e recuperare ogni frazione di materie prime tramite circuiti produttivi chiusi e una diversa gestione dei rifiuti. Una diversa tecnologia per poter comunicare a distanza evitando gli spostamenti.

L'eco-efficienza è senz'altro una strada da battere, ma non serve a molto se contemporaneamente non percorriamo anche quella della sufficienza. Vale a poco fabbricare prodotti più leggeri, se poi se ne consumano di più. Lo aveva capito anche William Stanley Jevons, economista inglese di fine Ottocento. Il suo punto di osservazione erano le caldaie a vapore: la tecnologia migliorava, ogni anno se ne producevano di più efficienti, il consumo di carbone sarebbe dovuto diminuire e diminuiva infatti a livello di singola caldaia. Ma aumentava a livello di Paese perché sempre di più erano le caldaie in circolazione. È stato battezzato “effetto rimbalzo” o “paradosso di Jevons”, ed è esattamente la situazione in cui ci troviamo oggi: riduzione di materiale per singolo prodotto, ma aumento a livello di sistema, a dimostrazione che senza un freno a produzione e consumi non andremo da nessuna parte.

Non possiamo prenderci in giro: l'unico modo per preservare le risorse è l'eco-efficienza associata a riduzione. Lo strumento fiscale e quello creditizio possono essere ottime leve per spingere imprese e cittadini in questa direzione. Per scoraggiare il consumo di combustibili fossili, in Svezia esiste la carbon tax già dal 1991. Ma dovremmo pensare anche alla distance-tax per scoraggiare il consumo di prodotti provenienti da lunghe distanze, alla fish-tax, alla tree-tax, alla water-tax per scoraggiare il consumo di risorse a lenta rinnovabilità come pesci, alberi, acqua.

Diciamocelo con tutta franchezza: il problema non sono gli strumenti. Il problema è la volontà. Ad oggi non è per niente accettata l'idea che dobbiamo passare dal consumismo alla preservazione, dall'economia della crescita all'economia del limite. E non perché non ci sia consapevolezza sulla crisi del pianeta, ma perché abbiamo la mente imbevuta di consumismo e abbiamo paura del nuovo. (…).

Ma le catene più forti che ci tengono ancorati alla crescita sono le paure sociali. Che si tratti di disoccupazione, di povertà, di assistenza sanitaria, la ricetta di questo sistema è sempre la crescita. L'assioma è che solo consumando di più si può sconfiggere la disoccupazione e solo producendo di più possono esserci abbastanza risorse per i servizi pubblici. Siamo nati e cresciuti in questo orizzonte. Non sappiamo immaginare altre formule economiche, la crescita è la nostra bandiera.

Eppure altri sistemi sono possibili. Sistemi che possono farci vivere meglio di come viviamo oggi pur producendo e consumando di meno. Ma bisogna rivedere i nostri stili di vita; bisogna ripensare le nostre convinzioni più profonde rispetto a temi come felicità, benessere, lavoro. Bisogna ridefinire i nostri obiettivi umani, sociali, ambientali.

(…). Dunque non si tratta di operare un semplice taglio lineare del Pil, ma di correggere le storture, rimodellando l'intero assetto produttivo, economico e sociale, talvolta riducendo, talvolta modificando, talvolta potenziando.

È certo, per esempio, che andrà ridotto il trasporto motorizzato privato, mentre andrà espanso quello collettivo. Come andrà ridotta la costruzione di nuovi edifici mentre si dovrà potenziare il recupero e il miglioramento del patrimonio edilizio esistente. E avanti di questo passo, fino a concludere che il tratto dominante della conversione che dobbiamo intraprendere non sarà la riduzione bensì la ristrutturazione finalizzata a tre grandi obiettivi: la tutela dell'ambiente e delle risorse, la garanzia delle sicurezze di base per tutti, la promozione di una qualità della vita che dia spazio a tutte le dimensioni della persona. Un traguardo possibile che però richiede un profondo ripensamento di molte categorie mentali e una radicale riorganizzazione della produzione, del consumo, della distribuzione dei ruoli tra pubblico e privato, della gestione del tempo e del territorio. Queste le sfide della nuova strada che ci attende.