HOME PAGE          SOMMARIO TEMI


L'odio verso Israele
Ogni nuova generazione di Arabi odia Israele più della precedente

Uri Avnery

dal sito web: ZNet 28 Agosto 2006
Traduzione di Patrizia Messinese per Peacelink

(biografia di Uri Avnery)

Il presidente siriano Bashar al-Assad , in occasione del suo ultimo discorso pubblico, ha pronunciato una frase che merita attenzione: "ogni nuova generazione araba odia Israele più della precedente".

Di tutte le parole spese sulla seconda guerra del Libano, queste sono, forse, le più rilevanti.

Il risultato più importante di questa guerra è l' odio. Le immagini di morte e distruzione in Libano sono entrate in ogni casa araba e, di conseguenza, in ogni casa musulmana, dall' Indonesia al Marocco, dallo Yemen ai quartieri musulmani di Londra e Berlino. Non per un' ora, neanche per un giorno, ma per 33 giorni consecutivi, giorno dopo giorno, ora dopo ora. Corpi straziati di bambini, donne che piangono sulle macerie della propria casa, ragazzini israeliani che scrivono "tanti saluti" sui proiettili che verranno sparati sui villaggi, Ehud Olmert che blatera di " esercito col più alto senso morale del mondo" mentre sullo schermo appare l' immagine di una catasta di cadaveri..

Queste immagini sono state ignorate dagli Israeliani e trasmesse raramente dalle nostre televisioni. Naturalmente avremmo potuto vederle su Al jazeera o su qualche canale occidentale, ma gli Israeliani erano troppo presi dal calcolo dei danni subiti nelle nostre città, nel nord del paese. Qui, i sentimenti di compassione e solidarietà nei confronti dei non-Ebrei sono ormai affievoliti, da molto tempo.

Tuttavia, ignorare questo risultato prodotto dalla guerra, è un terribile errore. E' molto più importante dell' insediamento di poche migliaia di militari europei lungo i nostri confini, su gentile concessione di Hezbollah. E' qualcosa che perseguiterà la coscienza di generazioni di Israeliani, quando i nomi Olmert e Halutz saranno stati dimenticati da tempo e quando perfino Nasrallah si sarà dimenticato del nome di Amir Peretz.

Per avere un' idea più chiara della portata delle parole di Assad, dobbiamo inserirle in un contesto storico.

L' intera impresa Sionista è stata paragonata ad una operazione di trapianto di organi. Il sistema immunitario si attiva nei confronti del corpo estraneo, il corpo si mobilita con tutta la forza di cui è capace per rifiutarlo. I medici devono usare dosi massicce di medicinali per superare la fase di rigetto. Questa situazione si può protarre anche per tempi lunghi, a volte fino alla morte dello stesso

corpo, compreso l' organo trapiantato. (Naturalmente questa analogia, come qualsiasi analogia, del resto, deve essere considerata con cautela. Un' analogia può solo aiutare a rendere più chiaro un concetto, non di più).

Il movimento sionista ha innestato un corpo estraneo in questo paese, che faceva parte, allora, dell' area araba-musulmana. Gli abitanti del paese, e l' intera regione araba, rigettarono l' entità sionista. Nel frattempo gli insediamenti ebraici si erano consolidati, erano diventati una vera e propria nuova nazione, piuttosto radicata nel paese. Il suo potere di difesa nei confronti del rigetto è aumentato col tempo. La lotta va avanti da 125 anni, ormai, e diventa sempre più violenta, generazione dopo generazione. L' ultima guerra è solo l' ennesimo e più recente episodio.

Qual' è il nostro obiettivo storico in questo confronto?

Uno sciocco direbbe: fare fronte al rigetto con dosi sempre maggiori di medicinali, fornite dall' America e dal mondo ebraico. Gli ancor più sciocchi direbbero: non esiste soluzione. Questa situazoine durerà per sempre. Non c'è niente che si possa fare, se non difenderci e combattere una guerra dopo l' altra. E la prossima guerra sta già bussando alla porta.

Il saggio direbbe: il nostro obiettivo è fare in modo che il corpo accetti l' organo trapiantato come uno dei propri, così il sistema immunitario non ci considererà più un nemico che deve essere rimosso a qualsiasi costo. E se questo è lo scopo, deve allora diventare l' asse portante di ogni nostro tentativo in questo senso. Morale della favola: ogni nostra azione deve essere giudicata sulla base di un semplice criterio: serve a raggiungere questo scopo o ad ostacolarlo?

Giudicata secondo questo criterio, la seconda guerra del Libano è stata un disastro.

Cinquantanove anni fa, due mesi prima dello scoppio della nostra guerra di indipendenza, pubblicai un libro dal titolo "Guerra o pace nella regione semitica". Le prime parole erano le seguenti:

"Quando i nostri padri sionisti decisero di costruire un 'porto sicuro' in Palestina, si trovarono davanti ad un bivio. Potevano fare la loro comparsa in Asia Occidentale come conquistatori europei, che vedevano loro stessi come un ponte, capi della 'razza bianca' e padroni dei 'nativi', come i conquistadores spagnoli ed i coloni anglo-sassoni in America. Questo è ciò che fecero i Crociati in Palestina. L' altra strada era quella di considerare loro stessi una nazione asiatica che faceva ritorno a casa, una nazione che si considerava erede del patrimonio politico e culturale della razza semitica, preparata ad unirsi alle altre popolazioni della regione semitica nella lotta di liberazione dallo sfruttamento europeo".

Come è risaputo, lo stato di Israele, che fu fondato qualche mese da allora, scelse la prima strada. Dette una mano alla Francia coloniale, cercò di aiutare la Gran Bretagna per poter avere di nuovo accesso al Canale di Suez e, dal 1967, è diventata la sorellina degli Stati Uniti.

Questo non era inevitabile. Al contrario, nel corso degli anni abbiamo avuto un numero sempre maggiore di indicazioni che il sistema immunitario del corpo arabo-musulmano stava iniziando a incorporare l' organo trapiantato, come un corpo umano accetta l' organo di un parente stretto, ed era pronto ad accettarci. Uno dei principali indicatori in questo senso fu la visita di Anwar Sadat a Gerusalemme. Un altro fu il trattato di pace firmato con re Hussein, un discendente del Profeta. E, il più importante di tutti, la decisione storica di Yasser Arafat, leader del popolo palestinese, di fare pace con Israele.

Dopo ogni enorme passo avanti, però, ci fu sempre un passo indietro, da parte di Israele. E' come se l' organo trapiantato rifiutasse l' essere accettato dal corpo. Come se, ormai abituato all' idea di essere rifiutato, facesse il possibile per provocare il corpo fino a farsi rigettare ancor più decisamente.

E' in questo contesto che dovrebbero essere inquadrate, e pesate, le parole di Assad jr., un membro della nuova generazione araba, alla fine di questa ultima guerra.

Dopo che ciascuna delle motivazioni per la guerra proclamate dal nostro governo erano una ad una venute meno, ne fu trovata una nuova: questa guerra era parte integrante dello "scontro di civiltà", la grande campagna del mondo occidentale e dei suoi alti ideali contro la barbarie e l' oscurantismo del mondo islamico.

Questo mi ricorda alcune delle parole scritte 110 anni fa dal padre del sionismo moderno, Theodor Herzl, nel documento che determinava i principi fondamentali del movimento sionista:

"In Palestina costituiremo, per l' Europa, una parte del muro contro l' Asia e fungeremo da avanguardia della civilizzazione contro la barbarie".

Olmert, senza saperlo, nel suo voler giustificare questa guerra, ha ripetuto quasi pedissequamente questa formula per compiacere il presidente Bush.

Negli Stati Uniti di tanto in tanto succede che qualcuno inventi uno slogan senza senso, ma facilmente assimilabile, che poi, per un po' di tempo, finisce per dominare il linguaggio corrente. Pare che più stupido lo slogan, più numerose siano le possibilità di diventare un faro di saggezza per gli intellettuali ed i media, fino a che qualcuno non ne inventa un altro di più efficace. Il più recente, per fare un esempio, è "Scontro di civiltà", coniato da P. Huntington nel 1993 (preso da la "La fine della storia").

Che scontro di ideali è in atto tra la musulmana Indonesia ed il cristiano Cile? Che eterna lotta hanno mai combattuto Polonia e Marocco? Cos'è che unisce la Malesia ed il Kosovo, due nazioni musulmane? O due nazioni cristiane come la Svezia e l' Etiopia? In che senso le idee dell' occidente sarebbero più sublimi di quelle dell' oriente? Gli Ebrei che sfuggirono alle fiamme dell' auto da fe dell' inquisizione cristiana in Spagna, furono ricevuti a braccia aperte dai muslmani dell' impero Ottomano. Le nazioni europee più acculturate elessero democraticamente Adolf Hitler e perpetrarono l' Olocausto, senza che il Papa levasse la propria voce in protesta.

In che modo i valori degli Stati Uniti, l' attuale Impero d' Occidente, sono superiori a quelli dell' India e della Cina, le stelle nascenti dell' Est? Huntington stesso fu costretto ad ammettere "L' Occidente ha conquistato il mondo non per superiorità delle proprie idee, dei propri valori o della propria religione, ma nell' applicazione sistematica della violenza organizzata. Se gli Occidentali spesso si dimenticano di questo fatto, i non Occidentali non lo dimenticano mai." Perfino in Occidente le donne hanno avuto diritto al voto solo nel 20° secolo e la schiavitù è stata abolita nella seconda metà del 19°. Per non parlare del fondamentalismo, che anche nella maggiore nazione dell' Occidente sta alzando di nuovo la testa.

Per amor del cielo, che interesse possiamo mai avere noi a farci avanti per diventare l' avanguardia politica e militare dell' Occidente in questo scontro immaginato?

La verità è, naturalmente, che tutta questa storia dello scontro di civiltà non è nient' altro che una copertura ideologica per qualcosa che non ha niente a che vedere con le idee ed i valori: la determinazione da parte degli Stati Uniti a dominare le risorse naturali del mondo, il petrolio in particolare.

La seconda guerra del Libano è considerata da molti una "guerra per procura". Vale a dire: se Hezbollah è il dobermann dell' Iran, noi siamo i rottweiler dell' America. Hezbollah riceve denaro, missili e sostegno dalla Repubblica Islamica, noi riceviamo denaro, bombe a grappolo e sostegno dagli Stati Uniti d' America.

Ho sicuramente un po' esagerato. Hezbollah è un movimento libanese autentico, con profonde radici nella comunità sciita. Il governo israeliano ha i suoi interessi (i territori occupati), che non dipendono necessariamente dall' America. Tuttavia non c'è dubbio che esiste molto di vero nell' affermazione che questa sia anche una guerra di sostituti.

Gli Stati Uniti combattono con l' Iran perchè quest' ultimo ha un ruolo chiave nella regione dove sono situate le più importanti riserve petrolifere del mondo. L' Iran, oltre a starsene seduto su enormi depositi di petrolio, rappresenta, tra l' altro, con la sua ideologia islamica rivoluzionaria, una minaccia per il controllo statunitense sui paesi produttori di petrolio confinanti. Il petrolio, risorsa in via di esaurimento, sta diventando sempre più essenziale nell' economia moderna. Chi controlla il petrolio, controlla il mondo.

Gli Stati Uniti attaccherebbero volentieri l' Iran e comunque, anche se fosse abitata da pigmei devoti a Dalai Lama.

Si può notare una somiglianza direi scioccante tra George W. Bush e Mahmoud Ahmadinejad. Uno si intrattiene in conversazioni personali con Gesù, l' altro è in contatto con Allah. Ma quello che vogliono è la stessa cosa: dominare.

Che interesse abbiamo noi a farci coinvolgere in questo scontro? Che interesse abbiamo a farci considerare, e a ragione, gli scagnozzi del più grande nemico del mondo musulmano in generale e del mondo arabo in particolare?

Vogliamo vivere qui ancora fra 100, 500 anni. Il nostro principale interesse nazionale richiede che noi stendiamo la nostra mano verso le nazioni arabe che ci accettano, per poi lavorare insieme alla riabilitazione di questa regione. Questo era vero 59 anni fa e sarà vero tra 59 anni ancora.

Piccoli politici come Olmert, Peretz e Halutz non sono capaci di ragionare in questi termini. Riescono a malapena a vedere oltre il loro naso. Ma dove sono gli intellettuali, coloro che dovrebbero essere più lungimiranti e previdenti?

Forse Bashar al-Assad non è un grande pensatore, ma la sua frase dovrebbe almeno permetterci una sosta ed una riflessione.